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Brand activism: perché sempre più aziende si interessano al bene comune?

Responsabilità sociale 2.0, capitalismo illuminato, o piuttosto una subdola strategia di marketing?

Il brand activism è un tema dai confini nebulosi e se siete andat* a fare una visita su wikipedia per chiarirvi le idee beh, sono certo che tornerete qui più confus* di prima.

Wikipedia definisce il brand activism come “un modello di business nel quale il perseguimento degli obiettivi economici è correlato o subordinato all’impegno dell’impresa in cause di rilevanza sociale”.

Christian Sarkar e Philip Kotler in “Brand Activism: dal purpose all’azione”, libro di riferimento mondiale sulla materia, parlano del brand activism come della “dichiarata volontà di una impresa di partecipare a cause sociali e di assumersi responsabilità circa il raggiungimento del bene comune.”

Insomma, ce n’è abbastanza per farsi un’idea, ma forse troppo perché questa sia chiara.

Cerchiamo allora di mettere un punto, perché, che piaccia o meno, stiamo parlando di una delle grandi novità degli ultimi anni nel mondo dell’imprenditoria e della comunicazione. Proviamo quindi a rispondere a una semplice domanda: come riconosciamo a prima vista un esempio di brand activism?

 

Come capire se c’è del Brand activism oppure no in quello che avete davanti.

Nel 2018 Nike sceglie Colin Kaepernick come uno dei testimonial della campagna per celebrare i 30 anni del suo iconico pay off “Just do it”.

Il quarterback americano si era distinto in quegli anni per le sue dichiarazioni contro la brutalità della polizia americana e a sostegno delle minoranze etniche, posizioni che aveva suggellato inginocchiandosi durante l’esecuzione dell’inno nazionale alle partite della NFL, scatenando le ire dell’allora presidente USA Donald Trump e di buona parte dell’opinione pubblica americana.

Credi in qualcosa anche se significa sacrificare tutto”.

Nike pone l’accento proprio sulle sue scelte fuori dal campo trasformando l’eroe sportivo, che successivamente rimase senza squadra, in un eroe politico. E in questo eroe dichiara di riconoscersi e lo offre al pubblico come esempio da seguire.

 


Qui invece una campagna di Patagonia che, in occasione del Black Friday del 2011, invitava a non fare acquisti compulsivamente, suggerendo piuttosto una serie di azioni come riciclare, riparare o addirittura comprare prodotti Patagonia usati al fine di ridurre il proprio impatto ambientale.

Sono due casi paradigmatici di brand activism.

Mettiamone in colonna gli elementi preponderanti:

  • Il prodotto non c’è più. È sparito. Puf!
  • Al centro del messaggio ci sono dei valori e non un invito all’acquisto.
  • Il brand si esprime su tematiche sociali assumendo posizioni scomode o contrarie alle tradizionali logiche di business orientate a massimizzare il profitto e le supporta con azioni concrete.

Certo, la tentazione di bollare tutto come una subdola operazione di marketing è forte.

Una spolverata di falsa ribellione e anticonformismo pur di far parlare di sé. Ma come valutare le migliaia di video di americani che bruciano prodotti Nike e che portano in tendenza l’hashtag #boycottNike?

E perché Patagonia non solo ha iniziato a pubblicare tutorial per insegnare a riparare i propri capi, ha aperto store per aiutare i suoi clienti a farlo, ma offre congedi lavorativi retribuiti ai suoi dipendenti che scelgono di fare volontariato nelle associazioni ambientaliste?

Nike e Patagonia sono solo due esempi tra i più studiati di brand activism. Tantissime imprese anche in Italia si stanno muovendo, come rileva l’Osservatorio Civic Brand, nato proprio per studiare come si sta evolvendo questo fenomeno nel nostro paese e che ha recentemente commissionato a Ipsos un’indagine di mercato nella quale è emerso che il 43% degli intervistati ha smesso di acquistare e di avere fiducia in alcuni brand perché si sono sentiti delusi dal loro comportamento. Qualcosa si sta muovendo anche da noi.

Ma da dove è spuntato fuori il brand activism?

C’è poco da dire. Le aziende sono scese in campo e sembrano anche fare sul serio.

Ne vediamo una conferma anche in questi giorni. Molte grandi imprese, Tesla tanto per citarne una, stanno offrendo assistenza all’Ucraina mentre anche le più piccole, prendono posizione, interrompono gli scambi commerciali con la Russia o ne boicottano i prodotti, come ha fatto Bernabei in Italia che ha smesso di vendere liquori russi.

Intendiamoci, non è che in questo campo, tradizionalmente appannaggio degli Stati e delle organizzazioni nonprofit, le aziende non si siano mai mosse. Nella cara e vecchia Responsabilità Sociale d’Impresa però l’ottica di fondo era più quella di un risarcimento del proprio impatto sociale e ambientale, una presa di coscienza della propria responsabilità, come sembra indicare proprio il termine CSR.

Con il brand activism l’azienda fa un passo in più e guarda invece all’esterno. Inquinare meno o fornire una navetta ai propri dipendenti per gli spostamenti va bene ma non è più sufficiente. Avere un codice etico non è sufficiente.

Occorre intervenire nel mondo con precise e misurabili azioni volte a generare impatto sociale.

Occorre coinvolgere e attrarre i consumatori e partner strategici come istituzioni e organizzazioni nonprofit intorno a dei valori condivisi.

Valori.

Abbiamo toccato la parola chiave del brand activism. Potremmo quasi sostenere che i valori abbiano preso il posto dei prodotti, o che sia in atto un tentativo di monetizzarli in termini del tutto inediti.

Adesso mettiamo da parte un attimo polemiche e dietrologie e cerchiamo di valutare in maniera più oggettiva cosa ha reso possibile la nascita di un fenomeno come il brand activism e quali sono le opportunità e i rischi che deve valutare una azienda che sta pensando di salire su questo carro.

Cosa ha reso possibile il brand activism?

Le aziende attraverso il brand activism stanno occupando il vuoto lasciato da governi e partiti politici nei quali i cittadini hanno sempre meno fiducia. Ma sono anche certi linguaggi promozionali che non convincono più, percepiti ormai come del tutto finti e autoreferenziali da un pubblico che grazie ai social e alla loro orizzontalità è sempre più competente e smaliziato.

Non è un caso che molte aziende collaborino con influencer per sembrare più credibili e fare breccia tra i consumatori delegando a questi di promuovere i loro prodotti.

I pubblici moderni inoltre, specie i Millenials e la generazione Z, compiono scelte sulla base dei consigli dei loro contatti e sempre più spesso cercano marchi nei quali identificarsi a livello valoriale e identitario.

Quali sono le opportunità e i vantaggi per un’impresa che vuole fare brand activism?

  • Fidelizzare. La chimera di ogni buona strategia di marketing con il brand activism sembra possibile. Cosa scalda infatti più le persone che la condivisione di valori e ideali? Deve esser quello che ha pensato Pampers con questa campagna per promuovere il ruolo del padre nel processo di genitorialità o quando ha installato 5000 fasciatoi nei bagni degli uomini nei locali di Stati Uniti e Canada?

  • Rilevanza. È difficile finire su tutti i giornali per mesi con il lancio di un nuovo paio di scarpe. Ma è quello che ha ottenuto Nike legando il proprio nome a Kaepernick.

  • Differenziarsi dai competitor. Un must per ogni brand che si rispetti in un mercato spesso affollatissimo. E allora cosa c’è di meglio di arricchire la propria offerta di valore con il proprio impegno per una causa sociale mentre gli altri litigano su prezzi e performance di prodotto?
  • Intercettare nuovi target o nicchie di mercato. Pensiamo a Flowe, la carta di debito in legno pensata per i giovani. Per ogni conto attivato Flowe si impegna a piantare un albero in Guatemala. Fico, no?
  • Coinvolgere e fidelizzare i propri dipendenti che saranno gratificati non solo da stipendi e benefit, ma che si riconosceranno nei valori aziendali e saranno coinvolti in prima persona nel metterli in atto. Se avete già sentito parlare di employer branding qui di sicuro vi starete strofinando le mani.
  • Migliorare la propria sostenibilità. Si parla da tempo di aziende marketing oriented, ovvero che orienta la propria offerta sulla base della domanda del mercato. Il brand activism costringe a rivedere questo approccio in maniera più olistica tant’è che già si parla di aziende society oriented o society driven.
  • Nuove partnership. Se l’obiettivo non è solo vendere ma cambiare il mondo facendo business va da sé che occorra trovare alleati. Confrontarsi con fondazioni, organizzazioni nonprofit e istituzioni porterà nuova linfa, stimoli, opportunità oltre che allargare il bacino dei propri stakeholder.

Quali sono i rischi e minacce del brand activism?

  • Non pertinenza. Ovvero scegliere una causa sociale solo perché di moda. Nike anche se parla di diritti lo fa usando degli sportivi, Pampers, che produce pannolini, supporta la genitorialità, Patagonia che produce outdoor equipment protegge l’ambiente. È importante trovare cause sociali che siano pertinenti con la propria storia aziendale, che aggiungano profondità e valore al proprio capitale narrativo, perché altrimenti c’è il rischio di sembrare opportunisti o di muoversi in un mondo del quale non si conoscono linguaggio e ideali. E lì gli autogol sono dietro l’angolo.

  • Shistorm. L’incubo di un social media manager. Valanghe di reactions negative, una gogna mediatica. Prendere posizione su un tema scomodo può deliziare una parte del pubblico ma ne farà infuriare un’altra. Un brand forte, solido, che ha un piano di crisis management e che ha coinvolto i propri dipendenti intorno alla propria mission saprà cavarsela e forse potrà permettersi un post come questo nel quale Diesel saluta in malo chi aveva abbandonato la loro pagina Instagram in seguito al loro appoggio al Pride.
  • Autoreferenzialità. Il rischio qui è basso ma immaginiamo che ci si faccia prendere un po’ la mano. Il rischio è quello di imporre ai propri dipendenti cose nelle quali non credono fino in fondo, di colonizzare la loro vita privata o anche solo di attrarre candidature di persone solo di un certo tipo. E la diversità di pensiero e la ricchezza di sensibilità sono il tesoro di ogni impresa che si rispetti.
  • Inconsistenza. Un crollo della brand reputation è da valutare prima di esporsi con azioni di brand activism. Il rischio di essere tacciati di brand washing è alto, specie se davvero non si è fatta una seria analisi interna dei processi di produzione e delle politiche lavorative interne. È quello che è successo ad Eni, sponsor di Sanremo che ha messo un tappeto verde fuori dall’Ariston per celebrare i suoi investimenti green. Peccato che Eni sia tra le principali emettitrici di CO2 al mondo e che solo nel 2020 ha avuto già una multa di 5 milioni di euro dall’Antitrust per pubblicità ingannevole, sempre riguardo un suo prodotto definito “biodiesel”, che di bio aveva ben poco.

Insomma, prima cambiare il mondo è bene dare una rassettata in casa propria.

Molti lo stanno facendo senza clamori.
Se è vero che gli esempi riportati sono tutti di grandi corporations è anche vero che in Italia ci sono già più di 1000 società benefit, ovvero aziende che perseguono, oltre gli utili, anche una o più finalità di beneficio comune.

Se questo trend crescerà ancora, se siamo davvero davanti a una rivoluzione che riscriverà i rapporti tra Stato e mercato è forse ancora presto per dirlo anche se la guerra in Ucraina sembra aver dato una ulteriore accelerata a questo processo.
Sarà poi interessante vedere come si muoveranno le 3000.000 organizzazioni nonprofit in Italia che vedono affacciarsi le imprese nel loro territorio. Forse la ricerca di un secondo fine riguardo il brand activism è più il sintomo che un vero cambio di paradigma e di mindset è ancora lontano.
Ci serviranno anche nuovi indicatori e modelli di monitoraggio per valutare i risultati a medio e lungo termine di tutto questo.

Stefano Salvi
Stefano Salvi