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Felicità al lavoro: è possibile? Ecco da dove cominciare

Indice

Introduzione

Felicità: parola abusata, che crea resistenza, viene spesso manipolata e polarizza le posizioni. Soprattutto quando si parla di felicità al lavoro, che per la maggioranza delle persone rappresenta un’utopia oppure la moda del momento. Provo a tracciare un senso a questa espressione in occasione, oggi 20 marzo, della Giornata mondiale della Felicità, istituita dieci anni fa, nel 2012 con una risoluzione dell’Organizzazione mondiale delle Nazioni Unite (ONU), per invitare i governi nazionali “a dare maggiore importanza alla felicità e al benessere, nel determinare come raggiungere e misurare lo sviluppo sociale ed economico”. Una ricorrenza che è anche l’occasione per diffondere il World Happiness Report, documento sullo stato di benessere in oltre 150 Paesi, con indicazioni per ri-orientare le politiche pubbliche.

Anche quest’anno la Finlandia risulta al primo posto, per il quinto anno consecutivo, seguita da Danimarca e Islanda. L’Italia perde sei posizioni, scendendo dal 25esimo al 31esimo posto. 

La mia riflessione terrà conto del contesto che stiamo vivendo, un momento storico difficile, doloroso e complesso, in cui sembra fuori luogo parlare di felicità, per cui invece c’è sempre più interesse. Occupandomi del tema da qualche anno, la mia conclusione è che proprio in questi frangenti, quando gli eventi esterni ci destabilizzano, dovremmo coltivare la nostra felicità, intesa non solo in senso edonico come emozione e piacere, ma in senso eudamonico, come competenza e muscolo da allenare, una soft skill – concetti che esploreremo meglio a seguire -, così come insegna la Scienza della Felicità. In questo modo le nostre risorse interiori ci forniscono quella centratura necessaria a far fronte all’instabilità esterna e a rafforzare quel senso del Noi, che ci permette di contribuire alla pace, comprendendo cosa è nel nostro controllo, cosa possiamo fare da dove siamo e gettando le basi per un futuro diverso.

Allenare la felicità è tanto più necessario sul luogo di lavoro.

Pena i fenomeni della Yolo (You only live once) Economy o della Great Resignation (Grandi Dimissioni), a cui stiamo assistendo dopo il Covid. Perché, secondo i due principali modelli diffusi in Italia, fondati sulla Scienza della Felicità e sulle organizzazioni positive, aspirare ad essa sul luogo di lavoro non significa altro che ambire a quel senso che i lavoratori cercano sempre di più in quello che fanno per vivere, scegliendo in alternativa di andarsene.

Si tratta di generare organizzazioni guidate da uno scopo o proposito, e non dal profitto, per far fiorire le persone, ossia da un perché forte, come già concepiva negli anni ’50 Adriano Olivetti, dichiarando “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”.

Queste organizzazioni sono così anche capaci di promuovere il bene comune e generare un impatto sociale. Contemporaneamente, la felicità diventa una leva strategica di business, come riporta la letteratura scientifica mondiale e come si evince da questo TEDx di Shawn Achor, secondo l’assunto che benessere e felicità sono fonte di produttività, e non il contrario.

 

Felicità: dimensione edonica ed eudamonica

Ti sei mai chiesto cosa significa esattamente felicità?
L’etimologia della parola felice è da ricondursi alla radice sanscrita bhu- (poi trasformatasi in foe- o in fe- ), infine al latino foelix o felix = felice cioè fecondo, fertile, quindi la felicità fa parte di un atto generativo. Ed è questo il senso di tale parola nella sua dimensione eudamonica, che si ricollega alla filosofia omonima.

Ma facciamo un passo indietro, usando come bussola quanto riferito nel libro “Chief Happiness Officer-Il futuro è delle Organizzazioni Positive”, scritto da Veruscka Gennari e Daniela Di Ciaccio, co-fondatrici dell’agenzia 2bhappy.

Il fatto è che la parola felicità viene spesso associata al suo significato edonico, che la intende come emozione, piacere, difficile da definire, raggiungere e mantenere nel tempo.

È ciò che “proviamo quando ci sentiamo felici”. Ma esiste anche un’altra dimensione della felicità, quella eudamonica: la felicità come proposito, quello che facciamo per renderla sostenibile nel tempo, un vero stile di vita, concetto ispirato ad Aristotele, secondo cui la “felicità è lo scopo, il bene supremo a cui l’uomo può aspirare attraverso il suo agire”.

 

Una dimensione a cui sono connessi il senso di scopo e le azioni intenzionali come individui e come comunità, a cui si collega a sua volta l’economia civile, che mette al centro la felicità intesa nella sua dimensione pubblica, il bene comune a cui i governi devono aspirare.

La felicità diventa quindi una competenza da allenare, come un muscolo, qualcosa da creare in maniera intenzionale e non cercare, così come concepito nella Scienza della Felicità. E non una destinazione, ma un percorso in cui incontreremo anche degli ostacoli e dei momenti bui, che saremo capaci di affrontare quanto più saremo allenati.

È una positività tossica? No, perché non significa che saremo felici tutto il tempo, bensì sapremo come meglio superare le difficoltà.

La Scienza della Felicità

La Scienza della Felicità è una scienza giovane nata dall’incontro di scienze consolidate, come psicologia positiva, biologia, neuroscienze, fisica quantistica, economia, allargandosi anche a ricerche di frontiera, integrando filosofia e discipline orientali. È una disciplina frutto di una somma di fattori, ma che prende sicuramente il via da un’intuizione dello psicologo Martin Seligman, quando decise di spostare il focus della psicologia dagli stati disfunzionali a quelli capaci, invece, di generare benessere, dando appunto vita alla cosiddetta psicologia positiva e generando il modello PERMA, dato da: (P) positive emotions-emozioni positive, (E) engagement -ingaggio, partecipazione, (R) relationships – relazioni, (M) meaning – senso, scopo, (A) accomplishment – soddisfazione e realizzazione degli obiettivi, successo.

https://optimisticspark.com/the-5-segments-of-positive-psychology-perma-model/

All’interno di questa disciplina, lo studio più importante in direzione della felicità come competenza, è firmato da Sonia Ljubomirsky, professoressa di psicologia positiva presso la California University e Ph.D della Stanford University, in realtà una meta-analisi in cui sono stati confrontati ben 225 studi sulla felicità.

E quale è stata la sua scoperta?

La felicità è per il 50% questione di genetica, per il 10% dipende dalle circostanze, per il restante 40% è relativa alla nostra reazione agli eventi, la parte che può essere allenata come un muscolo volontario, per cui serve costanza, scegliendo ad esempio delle pratiche da sostenere nel tempo, intenzionali e con uno scopo forte. È importante chiarire che i 3 fattori sono interdipendenti e possono variare nel tempo, non dobbiamo tanto concentrarci sui numeri esatti, bensì sulle proporzioni.

Innumerevoli le ricerche, le teorie e i modelli su come allenare questo 50%, che vanno a costituire il corpus della Scienza della Felicità. Se volete farvene un’idea, potete approfondire in questo articolo dal blog di Happiness for Future, una start-up innovativa che si occupa di felicità e futuri per gli individui e le organizzazioni. Inoltre, La Scienza della Felicità è un fenomeno che sta spopolando negli Stati Uniti e in Europa, con corsi di psicologia positiva online e compiti a casa per mettere in pratica ciò che si è appreso e che fa la differenza, da parte delle Università più prestigiose, come ad esempio quello della scienziata e professoressa di psicologia Laurie Santos a Yale, con milioni di iscritti, e il corso di Harvard “Leadership and happiness” per futuri manager.

La Felicità al lavoro in Italia

Come si traduce la Scienza della Felicità nel lavoro in Italia?

Gennari e Di Ciaccio stanno diffondendo il modello della Scienza delle Organizzazioni Positive (Org+). A loro, il merito di aver creato un ponte tra il costrutto già esistente delle Org+, secondo il filone che si concentra a livello organizzativo su come costruire aziende che fioriscono, ad esempio attraverso proposito, conversazioni di valore, valorizzazione delle persone, e la Scienza della Felicità applicata al lavoro, offrendo una chiave di lettura operativa, integrata e sistemica, che genera coerenza, struttura, efficacia e sostenibilità.

In questo contesto, le co-fondatrici di 2bhappy hanno anche ideato e stanno portando avanti con successo il primo percorso di certificazione in Italia per Chief Happiness Officer, il “complexity thinker” rappresentato da Hr Manager – Executives – Ceo – Imprenditori – Consulenti, formati in modo da essere “moltiplicatori di impatto” e fare del benessere una solida strategia culturale e organizzativa.

Da parte sua, Sandro Formica, Ph.D. della Florida International University, dove è titolare della cattedra di “Scienza della Felicità”, “Potere Personale” e “Gestisci Te Stesso, Gestisci gli Altri”, e speaker di apertura del World Happiness Summit, sta invece diffondendo la Scienza della Felicità al lavoro secondo il metodo da lui ideato della Scienza del Sé, fondato su un concetto di auto-consapevolezza declinato secondo 9 pilastri, intesi a livello individuale e organizzativo, ponendo in primo piano la Self-leadership: bisogni, valori, talenti, competenze, convinzioni, intelligenza emotiva, comunicazione empatica, proposito di vita, creatività e immaginazione, piano di vita.

Photo by Hal Gatewood on Unsplash

Formica, tra l’altro, nel 2020, ha partecipato all’evento di Parma con cui è stata lanciata la Regenerative Society Foundation, una coalizione multilaterale di leader globali, composta da imprenditori, policy maker, accademici e scienziati, leader spirituali, organizzazioni governative e non, istituzioni e società civile, impegnati nel promuovere la trasformazione della società secondo un nuovo paradigma socio-economico rigenerativo, a partire dai 3 pilastri dell’economia, della crisi climatica e della felicità.

Tra i promotori della fondazione, ci sono due importanti imprenditori italiani, impegnati a diffondere il tema della felicità nel nostro Paese, ossia Andrea Illy (Fondazione Ernesto Illy) e Davide Bollati (Gruppo Davines), insieme al Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite e i co-fondatori del sistema B Corp.

In entrambi i modelli è lo scopo o proposito a guidare le organizzazioni, allineando i valori dei singoli lavoratori e quelli del contesto, il famoso “senso” di cui parlavamo, che si riversa all’esterno nel promuovere bene comune e impatto sociale.

E si scopre così che mettere la Felicità al centro della strategia aziendale non è utopia e neanche una moda, ma si sta rivelando una concreta modalità operativa, che da una parte genera benessere, dall’altra parte incrementa ed evolve i tradizionali kpi aziendali quali innovazione, coinvolgimento, performance, ritention, redditività, e una maggiore capacità di adattamento di fronte ai tempi incerti e complessi che stiamo vivendo.

Certo il passaggio dall’azienda tradizionale a un Org+ non è immediato, servono scelte responsabili e serve innescare dei percorsi virtuosi che permettano di attivare un nuovo mindset adatto sia alle nuove sfide lavorative sia al desiderio di rimettere l’uomo al centro del lavoro!

La Scienza delle Organizzazioni Positive

Secondo Gennari e Di Ciaccio, per cui le Org+ non sono solo un modello organizzativo, bensì culturale, sono quattro le dimensioni che le caratterizzano:

  • Cultural Transformation – l’organizzazione è guidata da un proposito forte, ancorato a finalità collettive, capace di generare un impatto sociale, ecologico e di promozione del bene comune, per cui si crea un valore ecosistemico;
  • Corporate Happiness – la felicità è una strategia organizzativa coerente, per cui la felicità di ogni singolo collaboratore è sostenuta attraverso una serie di condizioni organizzative, strutturali e manageriali che la rendono efficace e sostenibile nel tempo. Sono dieci i focus strategici, a partire dal portare a bordo il top management;
  • Positive Leadership – capacità dei leader di generare un effetto completamente positivo e aumentare la felicità nel mondo, non solo perché hanno un purpose superiore che li ispira, ma anche perché si comportano in maniera positiva;
  • Positive Organization – l’organizzazione sceglie, disegna e gestisce processi e pratiche congruenti con la strategia identificata e capaci di generare benessere e percezione di coerenza.

Photo by Brooke Cagle on Unsplash

Il quarto aspetto, in particolare, corrisponde alla revisione dei principali processi, quali ad esempio selezione del personale, valutazione della prestazione, orari e ferie, strutture organizzative, procedure decisionali, retribuzioni, ruoli e mansioni secondo i quattro pilastri che, secondo Gennari e Di Ciaccio, sono alla base della Scienza della Felicità (frutto di un lavoro di estrema sintesi a partire dalle fonti più disparate): generano chimica positiva e negativa?

Favoriscono il senso del noi e quindi il capitale sociale oppure l’Io?
Permettono di coltivare l’essere oppure il fare e l’avere?
Vengono svolti una tantum o sono delle pratiche continuative e durevoli, ovvero hanno a che fare con la disciplina oppure con il caos?

Sul fronte dei numeri, finora sono stati formati 250 Chief Happiness Officer, grazie ai quali tante aziende stanno iniziando a trasformarsi, si sono registrati molti cambiamenti di consapevolezza, ad esempio partendo dalla pratica dello yoga della risata e della coerenza cardiaca.

L’interesse al tema è alto, se ne riconosce l’urgenza per continuare a sopravvivere nonostante la crisi, tanto che le classi per il Cho si riempiono automaticamente, anche se le organizzazioni che si sono manifestate apertamente corrispondono al 15% e il modello delle Org+ rimane ancora di nicchia.

Tra le aziende coinvolte nel processo di certificazione, Servizi Cgn, Mondora, Zeta Service, Chiesi, Biogen, Heply.

Alcune Org+ scelgono di diventare società benefit e, puntando sempre più in alto sulla scala dei valori e nella loro attuazione, aderire al movimento delle certificazioni B Corp, secondo quel principio antropologico che prevedere di contribuire al bene comune fa stare bene!

L’Associazione “Ricerca Felicità”

Dall’incontro tra il professore Sandro Formica con Elisabetta Dallavalle ed Elga Corricelli, presidente e co-founder, nonché CHO certificate, nasce l’Associazione “Ricerca Felicità”, che vuole promuovere l’Osservatorio BenEssere Felicità, monitorando un orientamento culturale all’interno del movimento Wellbeing & Happiness, in continua crescita in Italia e nel mondo.

Lo scorso anno è stato divulgato il primo rapporto annuale dell’Associazione, allo scopo di misurare lo stato di salute della felicità e del benessere dei lavoratori, sia nella dimensione aziendale, sia in quella individuale e sociale.

La survey, diffusa nel marzo 2021, ha riguardato un campione di 1314 partecipanti lavoratori, divisi per età (Baby Boomers, Generazione X, Millenials e Generazione Z), sesso e appartenenza territoriale (nord ovest, nord est, centro e sud).

È stata così fotografata una popolazione italiana mediamente soddisfatta del lavoro, con il 44% delle donne non appagate dalle opportunità di carriera, una mancanza generale di allineamento valoriale tra lavoratori e imprese, l’assenza di orientamento al futuro, e con la correlazione tra felicità e produttività instabile nelle regioni italiane del nord-est.

Un dato che ritengo rilevante è il fatto che i più infelici siano risultati i più giovani.

Sul podio si trova infatti la Generazione Z (dal 1997 in poi), di cui il 33% afferma di sentirsi isolata, seguita dai Millennials (1981/1996), con il 28%, mentre la Generazione X (1965-1980), con il 77%, non si ritrova affatto nell’affermazione “Ho la sensazione che gli altri mi isolino”. All’ultimo posto si posizionano i Baby Boomers (1946/1964): l’80% di loro sente attorno a sé una forte coesione sociale.

A breve uscirà il secondo report, dove saranno approfonditi anche i fenomeni della Yolo Economy e Great Resignation, sempre più diffusi in Italia, coinvolgendo inoltre nella ricerca la figura dell’imprenditore.

Da dove cominciare

Ma da dove cominciare, in concreto, per promuovere la Felicità al lavoro?

Secondo Di Ciaccio, “innanzitutto, il primo passo da compiere è coinvolgere il board, se è vero che non esiste un’organizzazione positiva senza una leadership positiva. Si tratta di far capire che business e benessere possono stare insieme, facendo della felicità non una moda, ma un driver strategico di business, come confermano i dati di aziende, quali Servizi Cgn e Mondora, che hanno continuato a fatturare anche in tempi di Covid, in quanto aver investito in questo senso in epoca pre-pandemia ha dato loro capacità di adattamento”.

“È necessario far comprendere a chi dirige che questo è un modello prima di tutto conveniente e più funzionale a gestire la complessità, per cui i lavoratori sono ingaggiati anche di fronte all’incertezza. La creatività, infatti, non nasce dove regna la sfiducia, ma dove c’è senso di appartenenza, il capitale sociale è la più forte risorsa di resilienza. Basti pensare ai dati del World Happiness Report, che hanno testimoniato come, in pieno Covid, le comunità che hanno continuato a crescere sono quelle dove più forte era il senso di appartenza. Così come fondamentale è l’allineamento tra proposito e valori individuali e quelli organizzativi In quelle dove c’è disengagement, si registrano invece episodi di Great Resignation”

L’imprinting di Evermind Società Benefit è stato sin da subito quello di voler mettere al centro le persone, i loro bisogni e le loro aspirazioni e ispirazioni. La fase di ascolto empatico di ogni professionista ha permesso di creare un modello organizzativo flessibile. In questo modo è stato possibile affrontare gli shock degli ultimi periodi, sostenendo il senso di appartenenza e di comunità! Ripensando il nostro modello aziendale in termini di felicità per tutti gli attori  in gioco (dai collaboratori ai clienti) siamo fiduciosi di poter diventare protagonisti di quel cambiamento necessario e di poter attrarre quei talenti che vedono in Evermind Società Benefit il contesto lavorativo giusto per far esplodere la loro creatività al servizio dei territori nei quali operiamo. A partire dalla condivisione dei nostri valori!

(Francesco Biacca, Founder Evermind)

Questa tendenza, collegata alla Yolo (You only live once) Economy, mi ha chiarito Di Ciaccio, spiega il diffondersi del nuovo filone della fulfilling economy in cui il fulfillment, che è andato in realtà a sostituire il concetto di engagement, è costituito dal senso – ovvero il proposito – dall’impatto e dalle relazioni.

Ritornando a elencare gli elementi da cui partire per portare la felicità al lavoro, Di Ciaccio ha infine dichiarato che “in secondo luogo è necessario qualcuno che tenga il ritmo, e qui entra in gioco la figura del Chief Happiness Officer. Terzo elemento importante è la misurazione, attraverso strumenti tecnologici ma anche analogici, perché se non misuri non gestisci. È necessario un monitoraggio costante, in maniera veloce e agile, in modo che in caso di difficoltà si possano rivedere i parametri”.

Cosa fare, invece, dal punto di vista del singolo lavoratore?

Se il sistema è demotivante, tossico, non allineato, se non hai leve per decidere, se hai ragionato a livello individuale e la tua consapevolezza ti porta a riscontrare una distanza troppo forte tra chi sei e ciò che fai, devi provare a cambiare la tua vita. Nella fase di ricerca, sei libero di scegliere pensieri, parole, comportamenti, per cui puoi dare un senso alla giornata nel tuo attuale posto di lavoro, attraverso il rapporto con i colleghi oppure facendoti promotore di pratiche positive, quali la gentilezza e la gratitudine. Puoi rimanere nella situazione difficile, finché impari ad allenare le tue competenze, però senza accanimento terapeutico. Il punto è che se la felicità dipende dal singolo e si cerca di contagiare l’organizzazione dal basso, non è impossibile ma più difficile, è una parte che si attiva contro un sistema. Mentre se la felicità è una strategia, una condizione sistemica, il cambiamento è più veloce.

Secondo l’Associazione “Ricerca Felicità”, la questione della felicità sul lavoro è prima di tutto “un problema culturale. È necessario un impegno personale rispetto alla consapevolezza dei propri bisogni e valori, per poi riversarsi all’interno delle aziende, in modo da permearle. Inoltre, è necessaria la presa di consapevolezza della governance, perché se i singoli lavoratori non sentono di poter esprimere i loro bisogni e valori personali vanno in crash e tendono a lasciare il lavoro”.

“I primi a farlo sono i giovani, i quali, quando non c’è un allineamento valoriale rispetto al purpose, non solo si dimettono ma arrivano addirittura a non candidarsi. È questo ciò che ci dicono i movimenti della Yolo economy e della Great Resignation, nati come conseguenza del Covid. I ragazzi non prescindono più, ci troviamo di fronte a una generazione, come ci dicono i dati, che non accetterà di considerarsi “felice” solo per il fatto di avere un lavoro, bensì chiede un allineamento culturale e valoriale. I disagi esposti devono fungere da monito, per questo riteniamo fondamentale lavorare sulla componente emotiva e sul potenziale che talvolta sembra rimanere inespresso. Crediamo sia importante stimolare i giovani fin dalle scuole primarie alla scoperta dei propri talenti, del proprio purpose e nell’uso del capitale potentissimo che tutti noi abbiamo: l’Immaginazione.

E tu, trovi uno scopo e un senso nel tuo lavoro?

Vanessa Postacchini
Vanessa Postacchini