Magari non c’è bisogno come in “Palombella Rossa” di arrivare a prendere a schiaffi un intervistatore o chi utilizza vocaboli opinabili, ma si, le parole anche in ambito ricettivo sono importanti.
E allora contestualizzando il “Chi parla male, pensa male e vive male”, nel mondo dell’ospitalità, potremmo anche dire che “Chi parla male, ospita male”. Per spiegarmi meglio: utilizzare parole differenti dalla norma potrebbe contraddistinguere un diverso modo di fare ed intendere l’ ospitalità.
E non si tratta di una questione di pura velleità estetico-linguistica; si tratta di concepire il legame imprescindibile tra cultura e lingua, tra parola e azione.
Molte volte nel corso della mio impegno nel settore ricettivo, mi sono trovata a discutere apertamente su quali parole fossero più o meno giuste da utilizzare, soprattutto in relazione al nostro ospite: ecco questa è proprio una delle parole in questione.
Perché chiamarlo Ospite e non Cliente?
Non nascondo l’abbrutimento e il mal di pancia che mi deriva dal sentire utilizzare la parola cliente da chi si professa un esperto nell’ ambito dell’ospitalità e che ha come prima missione “quella di far vivere un soggiorno autentico ai miei clienti”.
Ecco appunto. Se il principio è quello di “regale” un’ esperienza autentica, umana e culturale, se si vuole cioè spostare il valore della propria attività alberghiera dalla vendita di camere alla condivisione di conoscenze e culture allora quei clienti vanno chiamati ospiti.
Poi si può sempre avere la sola missione di creare un’ impresa turistica con la quale arricchirsi e allora il problema non ce lo poniamo. Ma per chi il problema se lo pone e sente di voler lavorare in una direzione diversa, consiglio di dare alla persona che si trova davanti il giusto valore, ovviamente non economico.
Perché la percezione ormai storica e piuttosto sviluppata, dell’essere visti in molte località turistiche come personificazione di cartamoneta con dei bagagli al seguito, rischia di creare, o ha già creato, un sottile muro di tensione tra chi arriva e chi aspetta l’arrivo.Tra chi cioè è dietro un desk ( serve proprio poi questo muro reale tra noi e le persone che accogliamo?) e chi arriva a quel desk con la paura e la sensazione di essere un fastidio e la pretesa, allo stesso tempo, che tutto gli sia dovuto proprio perché “io ti sto pagando”.
Forse il modo migliore per uscire da un circolo vizioso che rischia di essere solo distruttivo e nichilista è proprio quello di riconsiderare la figura di quei “clienti”, non come valori economici e numerici, ma come possibili relazioni, come portatori di novità e cultura differente. E per farlo diventa allora importante dargli il giusto nome, quello di ospiti, ovvero di persone che stiamo “ospitando” (non pensate per un momento al fattore economico), che accogliamo nella nostra “casa”, che vogliamo vedere felici e a proprio agio, e con le quali condividere le nostre conoscenze, le nostre culture e territori.
Senza nulla togliere alla normale esigenza di essere pagati il giusto per quanto si offre nella propria struttura e di pretendere che i servizi pagati vengano forniti, quello che bisogna fare se si vuole dare un diverso valore al fare ospitalità, è proprio quello di attribuirgli questo valore diverso. A partire come detto dalle parole: oltre alla disputa tra cliente (no!) e ospite (si!), ci sono altri termini sui quali vale la pena ragionare.
Il viaggio:
Da utilizzare con poca parsimonia in opposizione alla parola vacanza. Crea la percezione di una crescita personale, di un movimento a tendere verso qualcosa che dovrà arrivare; ha il sapore della scoperta e della conoscenza e non significa che non possa essere riposante. La vacanza è piuttosto quel “Periodo di riposo di una certa ampiezza previsto per chi lavora o studia, spesso con riferimento alle ferie estive”. È una parola certamente riduttiva e poco utile alla percezione di un valore profondo della conoscenza attraverso la scoperta dell’ignoto.
I Viaggiatori:
Da utilizzare con molta più parsimonia perché è un sostantivo che va meritato. Si definisce soprattutto in opposizione al turista, che nell’ ultimo decennio è sempre più identificato come colui che si muove da un posto a un altro con spirito vacanziero e portato ad avere una visuale generica ed estetica sulle cose, piuttosto che uno sguardo attento su persone, cose e dettagli.
Questa frase di Andrew Evans (giornalista della Nathional Geographic), potrebbe aiutare a capire le differenze:
Non volevo fare un tour, volevo fare un viaggio. C’è una differenza fondamentale tra il viaggiare e il turismo: il turismo è un’industria multi miliardaria che vende il viaggio come una merce: sogniamo una destinazione e paghiamo per averla, aspettandoci un certo tipo di esperienza, aspettandoci la certezza di quell’esperienza, e poi raggiungiamo la destinazione e ci godiamo l’esperienza. Ma il problema è che non si possono vendere esperienze di viaggio, non si può comprare la possibilità di vivere un paese fino in fondo [… ] Il viaggio, il vero viaggiare, è quando ti incammini su un sentiero aperto, accettando qualsiasi cosa che ti verrà incontro, che sia emozionante, esilarante, difficile o deprimente.
Ora per non essere noiosa come un tour organizzato in Thailandia, vorrei concludere sottolineando quanto sia importante, per sposare la causa di un’ospitalità diversa e genuina, cogliere le differenze insite nel modo stesso di viaggiare dei nostri ospiti; capire insomma se chi abbiamo davanti è un’ospite o un cliente, un viaggiatore o un turista e cercare, anche nei casi più disperati, di gettare il baccello della condivisione e della contaminazione culturale, che è in fondo lo scopo vero del viaggio.
Per questo il linguaggio può diventare educativo e insinuarsi con lentezza e tenacia nel nostro modo di intendere e percepire le realtà. E allo stesso tempo, essere percepito come tratto distintivo, portatore di una diversa ospitalità e perciò portare il vero viaggiatore a scegliere una realtà che sente più affine e con la quale può condividere la propria esperienza.
Le parole sono importanti.